La pittura di Fernando Graziano mi ha indotto a riflettere sulla prospettiva con cui guardiamo l’arte contemporanea e sul senso globale della produzione artistica odierna. Quest’anno alla biennale di Venezia non esiste il padiglione italiano, si notano istallazioni di giovani il cui livello di ricerca è tutto da definire e trionfa inesorabilmente l’arte anglosassone anche quando è un piatto raffinato, comune e mangiato ormai in mille varianti. Vince il mercato sull’arte. Vincono artisti bravi, tecnicamente dotati che producono solo quello che la gente vuole comprare, anche quando non riescono a dargli un senso; qualcuno, completamente abbandonato a questa corrente, cerca almeno di sfruttarla economicamente. Si tratta, ad onor del vero, di un andamento tutto occidentale o, meglio, alto borghese non riconoscibile in altri paesi del mondo dove la lotta per i diritti umani e per il progresso sociale è ancora in atto. Siamo ormai anestetizzati, incapaci di leggere la nostra realtà e di produrre dell’arte che ci accompagni nel cammino, ci dia uno spunto di riflessione, apra uno squarcio su ciò che è impossibile vedere. Forse chi vuole realizzare questo tipo di arte non trova spazio perché non è chic. Proviamo a guardarci indietro: il crocifisso dell’altare di Isenheim precede di poco la rivoluzione Luterana: come potrebbe essere tanto esemplare quel martirio e tanto inquietante la presenza di Giovanni Battista alla destra dello spettatore senza un’attenta, profonda, profetica e non chic lettura della società tedesca da parte di Grunewald? Quanta sensibilità deve aver messo Ensor nel rappresentare la società che accoglie Cristo a Bruxelles se ancor oggi, 2005, riconosciamo i tratti di buona parte del mondo occidentale e leggiamo in quella composizione i presagi dei totalitarismi e della seconda guerra mondiale? Ci occorre un’arte che sia specchio educativo; attualmente la maggioranza dell’arte dell’occidente è adeguata alla società, non ci sconvolge l’anima ricordandoci quanto grande sia la sfera affettiva e politica in cui ci muoviamo, quanti doveri abbiamo, nella nostra comunità e nei confronti di comunità lontane. Ritengo che si sia rovesciata la prospettiva dechirichiana: c’è una realtà visibile e terribile; la realtà metafisica che l’artista dovrebbe svelarci oggi è quella in cui riusciamo ad uscire dall’individualismo, dal luogo comune, dal comune senso dello spudorato, dal guadagno facile, dal successo effimero, dall’incapacità venduta per abilità, dall’ignoranza. Fernando Graziano, in questo contesto, diventa l’artista che ci risveglia. Con la sua grande qualità pittorica non dipinge figure chic che piacciano ma denuncia ed inchioda ciascuno al proprio dovere di dare un volto all’altro, di dargli una dignità. Spesso noi guardiamo senza attenzione chi ci sta di fronte e vomitiamo sull’altro, di cui non riconosciamo le sembianze dell’anima e della sua sensibilità, i nostri errori, le nostre paure e la nostra ignoranza senza preoccuparci di ferirlo o addirittura di annientarlo. Il matto, i musicisti di strada, il bambino che gioca, la madre, l’uomo d’affari sono tutti vittime di questa realtà. La rappresentazione della maternità è anch’essa piegata a questo gioco e la donna lo subisce come il figlio appena nato. Il breve passaggio attraverso il ritratto che la pittura di Graziano ha avuto è stato forse il tentativo di dare l’esempio, di dimostrare come sia possibile catturare le caratteristiche dell’anima sulle sembianze e dargli dignità e rispetto, onorarle. Segnale fugace spento dalla constatazione che ancora dobbiamo essere richiamati alla nostra responsabilità di costruzione di una società giusta e fraterna. Viene spontaneo rammentare le parole di Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia, il quale ci spinge a riflettere non tanto sul trovare la cura nella malattia o alleviare la fame col pane ma su cosa è l’uomo nella malattia, cos’è nella fame. Questo mutamento di prospettiva è l’unica possibilità che abbiamo per guardarci negli occhi, per ritrovare le nostre sembianze e quelle degli altri, per riconoscere la comunità di affetti e la necessità di comunione che l’uomo moderno occidentale surroga continuamente con idoli posticci.