Dott. Michele Cappellesso
Noale (VE) - Aprile 2003
A proposito de “Il Richiamo Inatteso”, ho avvertito, quando mi ci sono trovato di fronte, la vertigine.
La vertigine di un identità che si presenta come maschera del mistero, come copertura di un abisso -infinito e buio. Sono affascinato da questo quadro, perché vedo in esso trattenere - in un fittissimo linguaggio simbolico -, tutto il dramma dell’uomo contemporaneo: il frantumarsi dell’identità. Identità come centro polarizzatore delle intenzionalità di un soggetto, come cardine dell’individualità rispetto ai venti passionali che sferzano il corpo. A questa fluidità del Sé (come usano dire i sociologi) non siamo pronti. Dopo mille e mille anni ancora, di raccoglimento presso l’anima e le sue metamorfosi, ci siamo abituati a questo luogo rassicurante e protettivo. Oggi privati di questo punto di vista, ne ritroviamo molti, infiniti e, in questa infinità siamo disorientati e inquieti. Dispersi.
I numerosi e variopinti ritagli che imbastiscono l’abito mascherato che veste la persona (etimologicamente maschera) che sta dinnanzi a noi sopra la tela, paradossalmente lasciano scoperto il volto! Perché non c’è nulla da nascondere, perché non c’è volto, perché non ha nulla da rivelare. La catena dei perché si esaurisce nella constatazione della silenziosa assenza, di cui tutto il quadro è pervaso sotto la luce del tramonto da una parte e quella del mattino dall’altra .
La persona, la maschera per l’appunto, sta al di là del muretto, dalla parte dell’orizzonte infinito dove finiscono mare e cielo.
Di qua, un’enigmatica figura di spalle, quasi a celare il volto rivelatore, appare nelle vestigia del femminile, avvolta nel suo abito di mare, di conchiglia. Questa Venere che appare nella luce del meriggio, ha nella sua posizione l’instabilità che chiede il sacrificio dell’apparire, il toglimento del velo, di ogni rappresentazione. Ma questo toglimento sembra presagire un buio abissale, che inghiotte ogni senso. Ma ancora più inquietante del vuoto che ci sostiene, è quell’apparente innocua ciotola che sta in mezzo al quadro, tra le due figure, in mezzo ai due mondi (forse, anche, il maschile e il femminile).
Quella ciotola non consumata, del pensiero del mare, quella ciotola che dovrebbe nutrire ma non è stata consumata, forse la coppa della conoscenza?
Quanto ancora avrei da pensare su questo quadro, come del resto su tutti i quadri di Graziano - sono come lirica che si nutre di simboli.
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